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Siamo nel 2023 e nonostante i numerosi progressi compiuti dalla nostra società in merito ai diritti delle donne è ancora possibile rilevare fenomeni di oggettivazione sessuale e sessualizzazione femminili nella nostra cultura.
Di che cosa si tratta?
Se l'oggettivazione implica il considerare l'altro come un mero strumento in senso generale, l'oggettivazione sessuale è l'idea che il valore di una persona sia determinato dalla capacità di attrarre sessualmente l'altro, escludendo qualsiasi altro tipo di qualità personale. Questo fenomeno, veicolato principalmente dai mass media da lungo tempo, ha come conseguenza probabile l'autoggettivazione, ossia l'interiorizzazione da parte della persona di un'immagine di sé come oggetto del piacere altrui, sulla base della quale dipende il proprio valore personale.
È intuitivo che il fenomeno coinvolge principalmente l'universo femminile, e al giorno d'oggi i media e i social network tendono a spingere le ragazze ad inseguire un'immagine corporea da copertina - perfetta, stereotipata e irrealistica - al fine di essere parte del mondo dei pari e di evitarne il giudizio. Inoltre, la problematica coinvolge soprattutto bambine e ragazze, in quanto sempre più precocemente esposte a stimoli di natura sessualizzata.
Molte sono le conseguenze di una visione di sé autoggettivata, tra le quali il rischio di sviluppare condotte alimentari inappropriate, sentimenti di vergogna per il proprio corpo e umore depresso (Tiggemann, 2011). La prospettiva autoggettivante espone le donne ad una forte insoddisfazione per il proprio corpo o parti di esso che non siano corrispondenti agli ideali irrealistici promossi quotidianamente dal web e dai media. In aggiunta, e a conferma di ciò, diverse ricerche hanno dimostrato il ruolo cruciale della vergogna per il proprio corpo nella relazione tra autoggettivazione e disturbi alimentari. Botta (2003) aveva dimostrato che l'esposizione a riviste di moda spingesse le donne a desiderare corpi più sottili e a mettere in atto comportamenti alimentari patologici.
Ci si addentra quindi nella problematica della "sessualizzazione precoce", definita dall'American Psychiatric Association (APA, 2010) come una condizione problematica che include l'imposizione di una sessualità adulta a una bambina, la quale viene sessualmente oggettivata, e il cui valore è legato esclusivamente al suo aspetto o comportamento sessuale. Inoltre, la bambina è indotta a corrispondere ad uno standard di riferimento che associa l'attrazione fisica alla desiderabilità sessuale. Secondo gli studiosi, il fenomeno è in costante aumento negli USA, con importanti conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo e sociale delle bambine, le quali hanno comportamenti sempre più adultizzati e precoci ai quali però non corrisponde un altrettanto anticipato sviluppo neurobiologico (Ge e Natsuaki, 2009). Ne consegue che i rapidi cambiamenti della pubertà e l’esposizione ai fenomeni sopra descritti, non si incontrano con una struttura cerebrale sufficientemente matura da permettere a bambine e adolescenti di gestire la complessità di tali cambiamenti. Inoltre, i genitori e le famiglie stesse - spesso inconsapevolmente - incoraggiano atteggiamenti del genere nei figli, basati su stereotipi di genere fortemente radicati nella nostra cultura.
È stato dimostrato che la sessualizzazione si associa ad un maggior accordo, da parte di entrambi i generi, con atteggiamenti sessisti verso le donne (Ward & Friedman, 2006; Ward, Hansbrough, & Walker, 2005) e negli adolescenti, la visione di programmi sessualizzati alimenta una visione delle donne come oggetti sessuali e l’idea del sesso come attività ludica (Ward & Friedman, 2006).
Quando la sessualizzazione è interiorizzata, l’identità della donna si fonda in larga misura sulla necessità di essere costantemente attraente per gli uomini. Come per l’autoggettivazione, la sessualizzazione interiorizzata implica maggiori livelli di automonitoraggio e vergogna per il proprio corpo (McKenney & Bigler, 2016). In questo scenario, il rischio è che le donne stesse finiscano per promuovere una visione della donna di tipo sessista, sostenendo una rappresentazione tradizionale dei ruoli di genere, che diventa quindi sempre più difficile da superare. A questo proposito, si è visto che la sessualizzazione interiorizzata aumenta il rischio di tolleranza verso le molestie sessuali e di biasimo verso la vittima.
Come contrastare questi fenomeni?
È necessario predisporre interventi che contrastino la sessualizzazione precoce e l’autoggettivazione tra i giovani e i preadolescenti, che rappresentano le popolazioni maggiormente esposte. In primo luogo, è fondamentale attuare interventi di promozione del benessere e della salute sessuale, non solo di natura informativa ma anche orientati alla consapevolezza corporea e al contrasto della violenza di genere. Inoltre, è indispensabile che a ciò si affianchino interventi atti a promuovere un atteggiamento critico degli adolescenti verso la pubblicità, i social media e il mondo degli “influencer”, cosicché i giovani abbiano maggiore consapevolezza delle dinamiche in cui rischiano di essere assorbiti senza rendersene conto. Il coinvolgimento di insegnanti e genitori in questi interventi, inoltre, è fondamentale affinché tutti i destinatari possano divenire, nel tempo, i veri agenti di un cambiamento sociale verso una sempre più reale parità di genere, promuovendo l’accettazione del proprio sé corporeo e la valorizzazione di diverse e varie forme di bellezza e di qualità individuali.
di Samantha Staiola
immagine di Twighlightzone (https://pixabay.com/)
Bibliografia
American Psychological Association, Task Force on The Sexualization of Girls. (2010). Report of the APA Task Force on the sexualization of girls. Retrieved from http://www.apa.org/pi/women/programs/girls/report-full.pdf.
Botta, R. A. (2003). For your health? The relationship between magazine reading and adolescents’ body image and eating disturbances. Sex Roles, 48, 389-399.
Ge X, Natsuaki MN (2009), “In search of explanations for early pubertal timing effects on develop-mental psychopathology”, Curr Dir PsycholSci, 327
McKenney, S. J., & Bigler, R. S. (2016). Internalized sexualization and its relation to sexualized appearance, body surveillance, and body shame among early adolescent girls. Journal of Early Adolescence, 36, 171-197.
Tiggemann M (2011), “Mental health risks of self-objectification: A review of the empirical evidence for disordered eating, depressed mood, and sexual dysfunction”, in RM Calogero, S Tantleff-Dunn & JK Thompson (Eds.), Self-objectification in women: Causes, consequences, and counteractions, pp. 139-159, Washington, DC: American Psychological Association
Ward, L. M., & Friedman, K. (2006). Using TV as a guide: Associations between television viewing and adolescents' sexual attitudes and behavior. Journal of research on adolescence, 16, 133-15
Ward, L. M., Hansbrough, E., & Walker, E. (2005). Contributions of music video exposure to black adolescents’ gender and sexual schemas. Journal of adolescent research, 20, 143-166.
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Oggi in tutti i Paesi europei si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, un’occasione per sensibilizzare e creare maggiore consapevolezza sui temi legati all’orientamento sessuale e denunciare ogni forma di discriminazione e violenza, sia essa fisica, morale, politica o sociale, ai danni delle persone LGBTQIA+.
La data non è affatto casuale: il 17 maggio 2023 ricorre infatti il trentatreesimo anniversario della rimozione, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’omosessualità dalla classificazione internazionale delle malattie mentali, un’iniziativa e seguito della quale l’orientamento sessuale viene riconosciuto come parte integrante dell’identità della persona umana e non più come una “devianza”.
Tuttavia, persistono atteggiamenti discriminatori nei confronti della comunità LGBTQIA+ e dei suoi membri, accusati di essere portatori di stili di vita nocivi per la collettività e dannosi per la famiglia cosiddetta “tradizionale”, considerata come il pilastro su cui si fonda una società “sana”, “armoniosa” e “conforme alle leggi della natura”.
Alla base di tali discriminazioni, giustificate col pretesto di difendere detti valori, vi è un’avversione ideologia e irrazionale nei confronti dell’omosessualità, della transessualità e della bisessualità: l’omobilesbotransfobia, che prende la forma di pregiudizi spesso concretizzati in comportamenti discriminatori, abusi e crimini volti a spaventare, umiliare e limitare le libertà delle persone LGBTQIA+.
Comunità LGBTQIA+: definizione e origini
Per comunità LGBTQIA+ (o comunità rainbow) si intende “quell’insieme di persone che hanno un orientamento non eterosessuale (ad esempio, gay, lesbiche, bisessuali, queer) e, per quanto riguarda in particolare le persone transgender/non binary, che non sentono di appartenere al proprio genere biologico, rifiutando spesso proprio la visione dicotomica tra genere maschile e femminile”[1] .
Tale comunità costituisce un punto di riferimento fondamentale per i suoi membri, che adesso possono riconoscersi e sentirsi rappresentati non solo singolarmente ma anche all’interno di una realtà più ampia e, attraverso questa, far sentire la propria voce come parte integrante della società, rivendicando diritti e celebrando la propria identità di genere e il proprio orientamento sessuale anche pubblicamente.
Sebbene vi siano numerosissimi esempi, nelle diverse epoche della storia dell’umanità, di gruppi più o meno organizzati di persone non-etero orientate, l’inizio della storia della comunità LGBTQIA+ così come oggi la conosciamo viene fatto risalire ai moti di Stonewall del 1969 quando, nell’omonimo pub di New York, dopo l’ennesima retata contro i clienti del locale, la maggior parte gay, lesbiche e transessuali, si è scatenata una rivolta contro le autorità. Questa ha da subito assunto le dimensioni e il valore di una vera e propria rivoluzione, non solo attraverso la denuncia della omobilesbotransfobia istituzionalizzata e la rivendicazione dei diritti fondamentali di tutte le persone non cisgender e non eterosessuali, ma anche proclamando con orgoglio la propria appartenenza a una comunità con una propria dignità, identità e cultura.
Conclusioni
Il riconoscimento da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dell’omosessualità come “una variante naturale del comportamento sessuale umano” [2] ha aperto la strada al dibattito circa le discriminazioni nei confronti dell’allora comunità gay, oggi estesa in modo da comprendere tutti gli orientamenti diversi da quello eterosessuale e ri-denominata LGBTQIA+, e all’abbattimento di stereotipi legati all’orientamento sessuale e all’appartenenza di genere. Nonostante i numerosi passi avanti nel riconoscimento della dignità e delle libertà dei membri di detta comunità da parte delle istituzioni e della società civile, la strada verso un pieno ed effettivo riconoscimento dei diritti e delle libertà a favore delle persone LGBTQIA+ è ancora lunga e disseminata di ostacoli, in alcune zone del mondo più di altre.
Tuttavia, è importante sottolineare come ognuno di noi possa fare la differenza, attraverso la sensibilizzazione, l’ascolto e la condivisione di valori quali l’uguaglianza dei diritti e delle libertà e il pieno rispetto nei confronti di ogni forma d’amore e d’identità, ribadendo il pieno diritto di ogni essere umano a vivere la propria vita, nonché la propria sessualità e il proprio rapporto col corpo, serenamente e liberamente.
di Roberta Carbone
[1] https://www.gay.it/temi/comunita-lgbt
[2] https://www.reteready.org/attivita-della-rete/17-maggio/
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E se vi dicessimo che bere il “primo goccio” in famiglia può fare la differenza?
Da una ricerca della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza, dall’Osservatorio permanente Giovani e Alcol e dalla Associazione Laboratorio Adolescenza, su un campione di 1180 studenti di terza media è emerso che gli adolescenti che hanno avuto il primo approccio all’alcol in un contesto familiare hanno un rapporto con le bevande alcoliche più equilibrato rispetto ai coetanei che hanno consumato alcolici in ambito amicale, indipendentemente dalla precocità dell’esordio. Questa differenza è conseguenza del fatto che consumare alcol in presenza dei genitori consente agli adolescenti di non vedere l’assunzione di alcol come una proibizione da violare, depotenziandone così la valenza trasgressiva.
Nonostante l’effetto protettivo che la famiglia può esercitare, avere il primo contatto con bevande alcoliche nel contesto familiare non esime gli adolescenti dall’influenza del gruppo dei pari. Tra le motivazioni sottese al consumo alcolico, infatti, risultano esserci l’adeguamento al gruppo, il divertimento, lo “sballo” e il “darsi delle arie” come manifestazione del proprio prestigio nel gruppo. Inoltre, l’influenza dei coetanei sembra essere più forte nelle femmine che nei maschi. Alcuni fattori determinanti di tale tendenza si possono rintracciare in un desiderio delle ragazze di dimostrare la propria emancipazione, oltre alla volontà di non essere emarginate o derise dai pari.
Va da sé che, date queste premesse, gli adolescenti siano soggetti più a rischio per quanto riguarda il consumo alcolico, soprattutto se si considera il valore comportamentale che il bere può assumere: da un aiuto per essere più disinibito e integrato nel gruppo al bisogno di affermare la propria indipendenza e considerarsi adulto.
Tra le motivazioni sottese al consumo alcolico sono quindi molto frequenti la volontà di mostrarsi più forti, disinvolti o emancipati. Questi fattori sono da ricercarsi in due aspetti tipici dell’età adolescenziale. Se da un lato bere rappresenta un rito di passaggio e un modo per sentirsi più grandi, dall’altro risulta essere una compensazione al probabile senso di inadeguatezza percepito dagli adolescenti, chiamati a essere sempre “sul pezzo”, a rispondere alle aspettative sociali. Conseguentemente, sempre più giovani sono esposti a un consumo alcolico a rischio, come documentato da una ricerca condotta dall’ OMS in occasione dell’Alcohol Prevention Day 2021 in cui è emerso che, a fronte di un aumento generale dei giovani consumatori, le ragazze adolescenti (14-17 anni) superano per numerosità, per la prima volta, i loro coetanei consumatori a rischio (F=30,5%; M=28,4%).
Questo dato si può probabilmente ricondurre non solo alla normalizzazione del consumo alcolico, che non è più un evento tipico della sfera maschile, ma anche alla crescente volontà di emancipazione da parte delle giovanissime e all'esigenza di validazione della propria soggettività.
Tuttavia, ridurre il consumo alcolico a una mera ricerca di affermazione, per la quale le ragazze vogliono vedersi incluse nel gioco ed equiparate ai ragazzi, è deleterio e rischioso. Le femmine sono sottoposte ad alcune fragilità che le espongono a rischi maggiori, anche in virtù del sistema culturale in cui le donne vivono. È necessaria dunque un’educazione al valore della propria e altrui soggettività, dell’importanza delle differenze individuali e dell’espressione della propria personalità al fine di creare un contesto sociale e amicale sicuro che consenta di fare esperienze ed esprimersi in maniera libera e fiduciosa.
Alla luce di quanto detto, appare più che mai necessaria un’informazione contestuale, sana, diretta e consapevole, circa gli effetti delle bevande alcoliche sull’organismo. Vi sono numerose evidenze scientifiche che sottolineano come la capacità di smaltire l’alcol non si completi prima dei 20 anni, e come prima dei sedici anni l’organismo non sia in grado di produrre abbastanza enzimi utili al processamento dell’alcol.
È importante sapere, inoltre, che il sesso femminile è molto più vulnerabile agli effetti negativi a breve e lungo termine delle sostanze alcoliche.
Questo perché l’organismo femminile presenta una massa corporea e quantità d’acqua corporea inferiore all’uomo, oltre a un’efficienza minore dei meccanismi di metabolizzazione dell’alcol. Ne consegue che, a pari quantità di bevande alcoliche, le donne presentano un livello di alcolemia maggiore degli uomini. Inoltre, è stato dimostrato che gli ormoni femminili aggravano il danno epatico da alcol e che, a parità di alcol ingerito, l’alcolemia subisce delle variazioni a seconda delle fasi del ciclo mestruale.
In conclusione, per parlare consapevolmente di adolescenti e alcol, è necessario comprendere la complessità delle dinamiche sottostanti al fenomeno, evitando soluzioni semplicistiche e sbrigative. L’adolescenza è di per sé un periodo caratterizzato da forti contraddittorietà, che si riscontrano in numerosi aspetti della vita dei giovanissimi. Pertanto ricorrere a un atteggiamento di chiusura e giudizio può risultare deleterio alla comprensione e arginamento di un fenomeno preoccupante. I fenomeni di ubriacatura andrebbero approfonditi mediante analisi non solo quantitative, ma qualitative, per poter distinguere al meglio le espressioni transitorie di tale contraddittorietà da quelle configurabili come sintomo di una vulnerabilità individuale.
Sfatare i falsi miti e educare gli adolescenti a un consumo responsabile può essere un valido argine di un fenomeno sempre più in crescita.
In caso di bisogno, per avere informazioni scientifiche sugli effetti sulla salute del consumo di alcol o indicazioni sulle strutture territoriali che si occupano delle problematiche legate all’alcol è possibile contattare il Telefono Verde Alcol al 800 632000. Si tratta di un servizio nazionale, anonimo e gratuito, di counselling telefonico sull'alcol. Il servizio è attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 10.00 alle 16.00.
In aggiunta, è possibile consultare il seguente opuscolo informativo https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_102_allegato.pdf
di Erica Manta e Sara Morillon
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Mahsa Amini, volto del dissenso in Iran
La violenza contro le donne, nelle sue molteplici declinazioni, è un fenomeno diffuso in tutto il mondo e, nonostante le differenze culturali tra i vari paesi della comunità internazionale, questa appare quasi come una costante, sebbene possano esserci forme di violenza esclusive o più diffuse in alcuni contesti piuttosto che in altri.
In alcuni casi, la violenza contro le donne viene sì materialmente perpetrata da uomini, ma il vero carnefice sono le istituzioni politiche e religiose o una combinazione di entrambe, che introducono, o perpetuano, negli ordinamenti interni dei propri paesi, figure di reato, e relative pene, assolutamente discriminanti e lesive dell’integrità e della dignità di donne e ragazze.
Il caso che forse quest’anno ha fatto più scalpore è quello, tristemente noto, della morte della giovane curda iraniana Mahsa Amini, assassinata dalla polizia morale iraniana per aver indossato in maniera non conforme alla legge l’hijab, obbligatorio in Iran. La ragazza, fermata dalla polizia mentre passeggiava con i genitori per le strade di Teheran, è stata portata via con la forza dalle autorità, caricata su un’auto e condotta nel centro di detenzione di Vozara, tra violenze e percosse di una tale brutalità da farla andare in coma. Mahsa morirà tre giorni dopo, nell’ospedale di Kasra (1).
Le autorità iraniane hanno annunciato l’avvio delle indagini negando tuttavia qualsiasi illecito da parte della polizia, alimentando così l’indignazione e la rabbia della società civile, scesa in piazza a rivendicare maggiori diritti e libertà e a manifestare il proprio dissenso in merito alle discriminazioni e ai metodi brutali di un regime sempre più totalitario e misogino (2). Anche in questo caso, le autorità iraniane hanno risposto attraverso una selvaggia repressione, provocando la morte di più di cento manifestanti, molti dei quali minorenni, tra cui le sedicenni Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh, entrambe assassinate per aver preso parte ai cortei di protesta a seguito della morte di Mahsa.
Sebbene la violenza contro le donne venga spesso narrata e affrontata come una questione di natura meramente privata, le sue dimensioni e la sua portata necessitano di inquadrare il problema da un punto di vista culturale, sociale e addirittura politico. Tale fenomeno infatti non solo è largamente diffuso in tutto il mondo, ma viene spesso tollerato e addirittura legittimato da molti governi nazionali di diversi paesi in cui la donna è relegata ai margini della società e non è portatrice dei medesimi diritti degli uomini. Culture e strutture sociali patriarcali, legislazioni e pratiche discriminanti nonché l’ingerenza della politica e della Chiesa nella sfera privata, coi relativi tentativi di controllo del corpo della donna, contribuiscono a creare una società in cui donne e ragazze sono costantemente sminuite, mortificate ed esposte ad atteggiamenti discriminatori e pregiudizievoli tanto per la loro incolumità psico-fisica quanto per il rispetto dei loro diritti.
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne serve dunque, da una parte, a ricordare le vittime di ogni tipo di violenza basata sul genere e, dall’altra, a focalizzare l’attenzione di vari attori, nazionali e internazionali, su un problema sempre più diffuso e drammatico, in un’ottica di cooperazione che renda le donne protagoniste del proprio empowerment.
di Roberta Carbone
(1) https://www.amnesty.it/appelli/iran-proteggere-il-diritto-di-protesta/
(2) https://www.affarinternazionali.it/mahsa-amini-e-il-regime-svelato-tornano-le-proteste-in-iran/
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Il (non così sottile) confine tra determinismo biologico e convenzione sociale
Si ritiene che la donna sia madre per natura, che il suo corpo sia fatto per procreare e che il suo ruolo all’interno di quello che viene considerato “il nucleo sociale primario” -la famiglia- e, per esteso, nella società, sia predeterminato, fisso, immutabile e, in quanto tale, indiscutibile e incontestabile.
L’attuale dibattito tra chi ritiene che la donna debba per natura ricoprire un determinato ruolo, relegato alla sfera familiare e domestica, e chi invece ne sostiene il diritto di avere accesso anche (e forse soprattutto) a tutte quelle sfere e dimensioni ritenute, tradizionalmente, maschili, è lungi dal rappresentare una “novità”.
Già nella seconda metà del diciassettesimo secolo, infatti, John Stuart Mill affronta la questione nella sua opera “La soggezione delle donne”, in cui sostiene che “Nel nome del bene della famiglia si è giustificato per secoli il ruolo esclusivamente riproduttivo della donna, come se la funzione di madre e di moglie fosse naturale, e non invece frutto di convenzioni sociali e della relazione di potere tra i sessi”(1) .
Da queste parole emergono almeno due spunti di osservazione su cui vale la pena soffermarsi:
• Ciò che definiamo col termine “natura” spesso non è altro che l’insieme di diverse pratiche che, “sedimentatesi” nel tempo, hanno dato luogo a istituti, consuetudini e convenzioni sociali che oggi assumiamo come “date”
• La natura stessa non è affatto “determinata”, “statica” e “immutabile” ma, al contrario, è caratterizzata da dinamiche e processi che la incanalano in un continuo divenire. Pertanto, il ricorso alla natura stessa per avvalorare la tesi dell’”immutabilità” dei ruoli assegnati rispettivamente alla donna e all’uomo non ha alcuna attinenza con la realtà delle cose.
Se è dunque vero che, come affermava Aristotele, l’uomo è per natura un essere sociale e come tale propenso a unirsi, interagire e riprodursi, non è detto che le forme di associazione, le dinamiche all’interno dei rapporti e le relazioni di potere in gioco nella riproduzione siano e debbano essere immutabili, dal momento in cui gli stessi processi naturali non lo sono. Anzi, le idee, il linguaggio e le consuetudini su cui si fondano le società non solo sono mutevoli, ma possono e devono essere soggette a ridefinizioni, contestazioni e ribellioni, essendo le relazioni umane e i principi su cui si fondano strettamente legati alla volontà e alla responsabilità delle persone, sia come singoli individui che nella loro dimensione collettiva.
In questo quadro si inseriscono le singole iniziative e i movimenti di ridefinizione e contestazione del proprio ruolo da parte delle donne che, in misura sempre più estesa e profonda, sentono la necessità di (ri)appropriarsi (in quanto, sebbene non riconosciuti, già insiti in loro) dei propri diritti e della propria autodeterminazione, soprattutto per quanto attiene alle scelte che riguardano il loro corpo. Tuttavia, se da un lato i tempi sembrano maturi per l’apertura di un dibattito costruttivo sul tema, in cui finalmente le dirette interessate possano auto-rappresentarsi e auto-narrarsi, dall’altro si incontra ancora molta resistenza da parte di chi sostiene la distinzione e l’immutabilità della funzione della donna e dell’uomo all’interno della famiglia e della società.
di Roberta Carbone
(1) Stuart, J. M., La soggezione della donna, John Stuart Mill, in Mill e il ruolo solo riproduttivo delle donne, Striscia rossa, https://www.strisciarossa.it/mill-e-il-ruolo-solo-riproduttivo-delle-donne/
Foto di Engin_Akyurt da Pixabay
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La riappropriazione della propria identità e del proprio corpo
Tradizionalmente, la donna è posta in una posizione di alterità rispetto all’uomo. La donna è figlia, moglie e madre di, mentre l’uomo è il pater familias, il capofamiglia, da cui, almeno fino a poco tempo fa, la prole “eredita” il cognome con cui verrà identificata, da parte della comunità in piccolo e della società in grande, l’intera famiglia. L’identità della donna è dunque fortemente dipendente da quella dell’uomo a cui essa è legata, sia esso un padre, un marito o un figlio, e i rapporti di potere che derivano da questa posizione subordinata non possono che essere asimmetrici. Di conseguenza, la sua immagine è sottoposta allo “sguardo” maschile, e il suo corpo e la sua sessualità non le appartengono in quanto questi non sono altro che la proiezione del desiderio e dei bisogni dell’uomo. Tuttavia, la rappresentazione femminile che scaturisce da tali dinamiche non è altro che una costruzione sociale, da cui il carattere ambiguo dell’identità della donna e la possibilità di una ridefinizione del suo ruolo, che dovrà passare attraverso un percorso di riappropriazione della sua sessualità e del suo corpo.
Sradicare l’idea della donna oggetto della visione maschile e, soprattutto, annullare il processo di interiorizzazione da parte delle donne stesse dei modelli elaborati dagli uomini che le “ingabbiano” in un determinato ruolo sono dinamiche già in atto che hanno portato e continuano a portare a rivendicazioni e lotte per il riconoscimento di determinati diritti, che spesso hanno ad oggetto le scelte riproduttive delle donne.
A questo (in realtà non così nuovo) panorama, caratterizzato da maggiore consapevolezza, prese di posizione e contestazioni, si affaccia il delicato quanto controverso tema dell’aborto, più attuale che mai a seguito delle decisioni politiche assunte non solo da alcuni Paesi via di sviluppo, ma anche da certi Paesi della civile Europa e dai potenti Stati Uniti d’America.
La criminalizzazione dell’aborto e le sue conseguenze: alcuni dati
La sentenza del 24 giugno 2022 emanata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha ribaltato la Roe v. Wade con la quale, nel 1973, la medesima Corte sancì la legittimità delle pratiche di interruzione della gravidanza, costituisce solo l’ultimo esempio di un trend già in atto in diversi Paesi, ovvero una crescente ingerenza dello Stato nell’ambito della vita sessuale e riproduttiva delle donne che intende penalizzare l’esercizio da parte di queste ultime delle loro libertà in materia. Anzi, si può affermare che questa ingerenza sia volta a disconoscere e cancellare tali libertà, operando una sorta di controllo patriarcale nell’ambito di una dimensione, estremamente delicata e privata, della quale la donna ha storicamente tentato, con metodi spesso tragicamente fallaci, di riappropriarsi.
Se la condanna dell’aborto, infatti, è un fenomeno che ha radici estremamente profonde e antiche, le quali trovano nutrimento nel patriarcato, altrettanto antichi sono i metodi e le pratiche con cui le donne hanno cercato, nei secoli, di esercitare un controllo sulla propria capacità riproduttiva, anche interrompendo gravidanze che esse non desideravano. Tuttavia, i sistemi utilizzati a tale scopo erano e continuano a essere estremamente pericolosi e pregiudizievoli per la salute di donne e ragazze le quali, affidandosi a pratiche domestiche spesso eseguite da persone non competenti e con mezzi e strumenti di fortuna, si espongono a rischi che non sussisterebbero se esse avessero accesso a sistemi legali e sicuri. La criminalizzazione dell’aborto non è mai servita a ridurre effettivamente il numero assoluto delle interruzioni di gravidanza, ma ha solamente comportato un aumento del tasso di mortalità e di ospedalizzazione delle donne che, in mancanza di adeguate tutele, sono ricorse a tali “rimedi” alternativi.
Secondo i dati del Guttmacher Institute, tra le più rilevanti autorità in materia, ogni anno tra il 2015 e il 2019 si sono verificate in tutto il mondo circa 121 milioni di gravidanze indesiderate, di cui oltre la metà- ben il 61%- si è conclusa con un’interruzione, per un totale di 73 milioni di aborti l’anno (1). È bene precisare che il numero potrebbe essere maggiore, considerando che una parte di tali interruzioni saranno state operate clandestinamente, per cui i dati potrebbero essere inficiati da una carenza di fonti attendibili.
Si stima che il 45% degli aborti siano pericolosi e pregiudizievoli per la salute delle donne, poiché praticati in condizioni igienico-sanitarie precarie e clandestinamente, e ben il 97% di questi avviene in Paesi in via di sviluppo (2). Più della metà hanno luogo in Asia, la maggior parte dei quali in Asia centrale e meridionale, mentre in America latina e in Africa circa tre quarti degli aborti avvengono in condizioni igienico-sanitarie di scarsa sicurezza (3).
Nonostante i rischi, è bene notare come legislazioni restrittive in tema di interruzione della gravidanza non sembrano impattare sul numero di aborti tanto tanto che, nei Paesi in cui queste sono vigenti, si è passati da un 36% di gravidanze indesiderate terminate in un aborto tra il 1990 e il 1994 a un 50% tra il 2015 e il 2019 (4). In effetti, comparando i dati a disposizione per quanto riguarda, da una parte, i Paesi dove l’aborto è legale e, dall’altra, quelli in cui non lo è, emerge che la differenza percentuale di gravidanze che si concludono con un’interruzione volontaria è pari a un mero 2% (41% nel primo caso, 39% nel secondo) (5).
Una differenza significativa attiene invece al numero di gravidanze non pianificate le quali, nei Paesi dove l’aborto è illegale, sono particolarmente frequenti, fino a toccare quasi l’80% del totale (6), un dato che testimonia lo stretto legame esistente tra criminalizzazione dell’aborto e restrizioni legislative in materia da una parte, e scarsa diffusione dei contraccettivi e dell’educazione sessuale dall’altra.
Come già accennato, la criminalizzazione dell’aborto comporta spesso serie conseguenze per la salute delle donne che, non avendo accesso a metodi legali e sicuri, ricorrono a pratiche clandestine che le espongono a gravi pericoli, tra cui il rischio di morte. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, l’aborto clandestino ha una certa incidenza per quanto riguarda la mortalità materna, con una percentuale che oscilla tra il 4,7 e il 13,2% di morti causate appunto da tale sistema alternativo di interruzione (7). Al contrario, l’accesso legale a pratiche sicure è associato a minori tassi di mortalità materna e a un minor numero di complicazioni post-aborto, contribuendo dunque a preservare la salute e l’integrità fisica di donne e ragazze.
Ma l’aborto clandestino ha effetti anche sulla sicurezza di coloro le quali ricorrono a questa “soluzione”, poiché le espone al rischio di ritrovarsi in situazioni pericolose come truffe, ricatti economici o di natura sessuale, crimini gravissimi che tuttavia restano impuniti a causa della ritrosia delle vittime a denunciarli alle autorità per il timore di subire eventuali ripercussioni in merito al tentativo (più o meno riuscito) di abortire.
di Roberta Carbone
(1) Guttmacher Institute, Global and regional Estimates of Unintended Pregnancy and Abortion, https://www.guttmacher.org/fact-sheet/induced-abortion-worldwid
(2) Organizzazione Mondiale della sanità, Abortion, https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/abortion
(3) Ibidem
(4) Guttmacher Institute, Global and regional Estimates of Unintended Pregnancy and Abortion, https://www.guttmacher.org/fact-sheet/induced-abortion-worldwide
(5) Ibidem
(6) Ibidem
(7) Organizzazione Mondiale della Sanità, Abortion, https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/abortion
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Un primo passo verso la ridefinizione del proprio ruolo
Introduzione
"Dove, dopo tutto, hanno inizio i Diritti Umani? Nei luoghi più piccoli, vicino casa, così piccoli e vicini da non essere menzionati neppure sulle carte geografiche. Tuttavia questi luoghi rappresentano il mondo del singolo individuo; il quartiere in cui vive, la scuola o l'università che frequenta; la fabbrica, la fattoria o l'ufficio dove lavora. Questi sono i luoghi dove ogni uomo, donna e bambino cerca eguale giustizia, eguale opportunità, eguale dignità senza discriminazione. Qualora questi diritti abbiano poco valore in quei luoghi, essi ne avranno poco anche altrove" (1). Con queste parole Eleanor Roosevelt, che oltre cinquant’anni fa assunse il ruolo di guida nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani, definiva proprio quest’ultimi, evidenziandone non solo la portata politico-giuridica ma anche l’importanza sociale e, per così dire, “quotidiana”.
La Dichiarazione Universale, il cui nome completo è, come è bene sottolineare, “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” e non “dell’uomo”, costituisce il più avanzato complesso di principi finora ideato dall’umanità, nonché la base su cui sono stati edificati i principali strumenti internazionali in materia di diritti umani. Infatti, il principio base su cui si fonda tale documento è l’universalità, da cui a sua volta deriva il principio di uguaglianza e non discriminazione, cosicché “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (2).
Tuttavia, sembra che tale idea di universalità non sia sempre tenuta in debito conto nell’ambito del rispetto e della tutela dei diritti umani e di quelli da essi derivanti, soprattutto per quanto riguarda alcune categorie di soggetti e determinate tematiche, particolarmente delicate e complesse, che esigono un profondo cambio di prospettiva da parte della società per poter essere comprese e affrontate al meglio. Tra questi temi emerge sicuramente quello dell’aborto, una pratica non solo criminalizzata da parte dell’ordinamento giuridico di numerosi Paesi, ma anche discussa e contestata da rappresentanti politici, esponenti della Chiesa e numerose fasce della società civile, che pretendono si eserciti una sorta di controllo sul corpo, sulla sessualità e sulle scelte riproduttive delle donne.
Negli articoli che seguiranno, verranno analizzate e discusse quelle problematiche, oggi più attuali che mai, attinenti al ruolo della donna all’interno della famiglia e della società, un ruolo, da una parte, ritenuto predeterminato e, in quanto tale, perpetuo e da preservare, dall’altra sempre più contestato a favore di maggiori libertà e spazi di espressione. In questo contesto, si cercherà di capire la funzione delle pratiche di interruzione della gravidanza nei processi di riappropriazione del corpo, della sessualità e delle scelte riproduttive delle donne, con particolare riguardo anche alla questione delle relazioni (asimmetriche) fra i sessi.
di Roberta Carbone
(1) Associazione Italiana donne per lo sviluppo, Il ruolo delle donne nel dibattito sulla stesura della Dichiarazione universale, http://dirittiumani.donne.aidos.it/bibl_2_testi/a_dich_univ_dir_umani/du_ruolo_delle_donne.html
(2) Organizzazione delle Nazioni Unite, Dichiarazione Universale dei diritti umani, 1948
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