Parlare di stereotipi di genere non è semplice. Farlo insieme ai bambini, in un linguaggio comprensibile e accessibile, lo è ancora meno. Matteo Bussola, scrittore e fumettista, nel suo libro Viola e il Blu, prova a farlo, e ci riesce molto bene.
Questa storia, ispirata dalle conversazioni dell’autore con le sue figlie, indaga gli stereotipi di genere attraverso lo sguardo puro e curioso di Viola, una bambina che sa già molto bene chi è e cosa vuole diventare.
Viola gioca a calcio, sfreccia sul monopattino e ama il Blu. Scrive i colori con la lettera maiuscola, perché per lei ogni colore è unico, come le persone.
Non tutti sono d’accordo con lei. Tanti pensano che esistano cose ‘da maschi’ e cose ‘da femmine’, specialmente gli adulti, ma Viola questo fatto non riesce proprio a capirlo. A Viola non è molto chiaro, per esempio, perché alle femmine venga sempre attribuito e debba piacere per forza il Rosa, mentre ai maschi il Blu. Così un giorno decide di chiederlo al suo papà, che fa il pittore e di colori se ne intende.
(da Viola e il blu, (2021) Matteo Bussola, Salani, Milano)
Grazie al dialogo con il suo papà scoprirà che non è sempre stato così, ma è l’uomo che, nel corso della storia, ha dimenticato il significato simbolico originale di questi colori e li ha trasformati in rigide etichette in cui catalogare le persone in base al proprio genere.
I dubbi di Viola sui colori sono solo il punto di partenza del profondo e delicato dialogo che guida questa storia, in cui vengono toccate tematiche molto più ampie e profonde. Il Rosa e il Blu, infatti, sono la punta dell’iceberg di un sistema culturale che incasella i bambini e le bambine, gli uomini e le donne, in tante piccole scatole, da cui difficilmente si riesce a uscire.
Attraverso gli occhi di Viola e del suo non convenzionale papà, Bussola cerca di spiegare il valore e l’importanza della diversità, la necessità di guardare alle cose da una prospettiva totalmente nuova, che metta al centro i gusti e le aspirazioni di ognuno, senza giudizio e nella più totale libertà. La necessità di essere delle persone storte, che guardano il mondo con gli occhi liberi dagli stereotipi che impediscono di autodeterminarsi liberamente.
In questo, Viola è una bambina fortunata. Effettivamente, tutta la sua famiglia è un po’ storta. La mamma lavora in ufficio dalla mattina alla sera, essendo un ingegnere, mentre il papà si occupa di lei e lavora da casa. Per Viola questa è la normalità, ma si renderà conto, incontrando altre persone, che per gli altri non è così. Dopo tutto, i ruoli di genere non vedono di buon occhio che sia il papà a occuparsi dei figli e la mamma a lavorare, né che alle bambine piaccia giocare a calcio e i bambini piangano. Un piccolo esempio della rigidità di questi ruoli, è offerto quando Viola e il papà vanno a prendere un gelato in città: “stai di nuovo facendo il mammo?” chiede un passante al papà di Viola. Questa domanda fa sorgere nuove perplessità in Viola, così il suo papà le spiegherà che secondo quel passante stava facendo ciò che ci si aspetterebbe faccia una mamma.
(da Viola e il blu, (2021) Matteo Bussola, Salani, Milano)
È proprio così, spiega il papà, che le persone vengono racchiuse in delle scatole, dalle quali è difficile uscire, ma anche entrare, poiché in entrambi i casi si deve per forza rinunciare a qualcosa della propria unicità. È proprio l’unicità il filo conduttore di questo delicato dialogo tra padre e figlia, la trama sottile che emerge con forza quando Viola chiede al suo papà a chi dei due genitori somiglia: “non somigli a nessuno dei due, avrai preso qualcosina da entrambi ma somigli solo a te stessa.” si sente rispondere Viola. Ciò che il papà vuole far capire a Viola è che può anche avere alcune caratteristiche fisiche, passioni, pregi o difetti simili a quelli dei propri genitori, ma lei è una persona unica con altrettante caratteristiche irripetibili e libera di esprimersi e di essere semplicemente Viola, con tutte le sue sfumature.
Imparare a riconoscere l’esistenza delle sfumature, per Bussola, significa abbandonare la convinzione di dover essere qualcuno che la società si aspetta, per diventare quello che davvero siamo, quello che davvero vogliamo essere.
Non avere paura di esprimere rabbia, dolcezza o tenerezza, senza che qualcuno decida al nostro posto che queste caratteristiche non ci appartengono. Imparare a colorare il proprio mondo di colori diversi, con sfumature diverse, imparando a vedere la bellezza nell'unicità e nella diversità di ognuno.
“Papà ma allora a cosa serve essere maschi o essere femmine?” “Serve ad avere un punto di partenza Viola, proprio come noi due davanti a questa salita che ci separa dalla nostra casetta” “La salita della morte?” “In questo caso direi piuttosto la salita della vita, diventare ciò che siamo significa arrivare in cima, o arrivare al punto della salita in cui ci sentiamo finalmente a casa. Perché essere femmine o essere maschi ha a che fare con ciò che la vita ha scelto per noi, invece diventare donne e diventare uomini ha a che fare con quello che noi ogni giorno scegliamo per le nostre vite, dipingendoci con tutti i colori che ci servono.”
di
Erica Manta
Valentina Di Nunzio
Valeria Vitillo