I Paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia e Islanda) fanno parte da anni delle classifiche internazionali sulla parità di genere. Eppure, proprio lì, si registrano tra le percentuali più alte di donne che dichiarano di aver subito violenza domestica. Questa risulta essere un’apparente contraddizione che ha acceso un ampio dibattito nel tempo (Gracia e Merlo, 2016).
Nei Paesi scandinavi, infatti, circa una donna su tre riferisce esperienze di violenza da parte del partner. Una possibile spiegazione è legata all’effetto consapevolezza: in contesti più equi e aperti, le donne si sentono più libere e sicure nel riconoscere e denunciare gli abusi (Nevala 2017, Davoine e Jarret 2018).
Un’altra ipotesi guarda, invece, al cosiddetto 'contraccolpo patriarcale': l’emancipazione femminile sarebbe vissuta da alcuni uomini come una minaccia al proprio ruolo tradizionale, provocando reazioni violente (Davoine e Jarret, 2018).
Inoltre, la ricerca ha affrontato il tema da molteplici angolazioni. Se alcune discipline, come la neuropsichiatria o la criminologia, tendono a individuare le cause in fattori individuali (abuso di alcol o instabilità psichica), approcci sistemici come quello “ecologico” vedono la violenza come il risultato di una rete complessa di elementi: storie personali, struttura familiare, cultura sociale e valori condivisi (Heise 1998, Heise e Kotsadam , 2015).
Secondo la status inconsistency theory (O’ Brien, 1971), l’innesco della violenza può avvenire proprio quando la donna conquista una posizione percepita come “superiore” rispetto al partner: più istruzione, un reddito maggiore e un ruolo di prestigio. Dunque, l’equilibrio si spezza e la risposta può diventare aggressiva.
In aggiunta, a supporto della teoria del contraccolpo patriarcale, si inserisce anche l’exposure reduction hypothesis (Dugan et al., 1999), secondo cui le donne lavoratrici sarebbero meno esposte alla violenza domestica semplicemente perché trascorrono meno tempo tra le mura di casa, ma una lettura più attuale suggerisce un’evoluzione diversa: la violenza non diminuisce, si trasferisce. Dallo spazio privato si sposta in quello pubblico, in cui le donne sono oggi più presenti, visibili e attive. Questo spostamento può contribuire alla percezione, soprattutto nei Paesi più avanzati sul piano dell’uguaglianza, di un aumento della violenza di genere. Più che crescere, però, è la sua visibilità ad aumentare: è più esposta, raccontata e denunciata. Le molestie sul lavoro, per esempio, sono più frequenti in ambienti a forte impronta maschile (come esercito, miniere o luoghi con culture organizzative dominate dagli uomini), ma anche in contesti rigidi e gerarchici o quando le donne occupano ruoli precari. Infine, l’analisi svela anche una realtà più sfumata: nei contesti più egualitari, cresce la segnalazione di violenze negli spazi pubblici, in particolare molestie e aggressioni da parte di non partner. Questo dato risulta meno solido dal punto di vista statistico, ma apre ad una riflessione: l’emancipazione femminile contribuisce a ridurre la violenza domestica, ma può anche spostare, o rendere più evidente, quella che si consuma fuori casa.
In questo scenario, l’educazione sessuale e affettiva (comprehensive sexuality education, CSE) si configura come una strategia di primaria importanza per la riduzione dei comportamenti violenti, in particolare quelli a sfondo sessuale e relazionale. I programmi scolastici integrati che includono lo sviluppo delle competenze socio-emotive, la comprensione del consenso, il rispetto reciproco e le abilità comunicative hanno mostrato evidenze di efficacia nella prevenzione primaria della violenza.
La definizione fornita dalla World Health Organization (WHO), ripresa da UNESCO (2018), descrive la CSE come un approccio educativo che mira a fornire ai giovani informazioni scientificamente accurate e adeguate all’età in merito alla sessualità e alla salute sessuale e riproduttiva. Questo approccio si estende ben oltre la mera trasmissione di nozioni biologiche, abbracciando aspetti fondamentali quali le relazioni interpersonali, il rispetto dei diritti individuali, il consenso, l’autonomia corporea, i cambiamenti puberali e la prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili, inclusa l’HIV.
La CSE si fonda su due pilastri principali: da un lato, l’offerta di contenuti basati su evidenze scientifiche; dall’altro, un orientamento critico volto a decostruire le dinamiche di potere associate al genere e alla sessualità. In tal senso, si riconosce l'importanza di un quadro educativo basato sui diritti umani e sull’uguaglianza di genere, come già affermato dalla World Association for Sexual Health (WAS, 1997).
In linea con queste prospettive, Schneider e Hirsch (2020) evidenziano come l’implementazione della CSE fin dai primi cicli scolastici possa contribuire significativamente alla riduzione dei fattori di rischio associati ai comportamenti violenti, intervenendo così sul piano della prevenzione primaria. Studi longitudinali e valutazioni di efficacia dimostrano che tali programmi non solo favoriscono l’aumento delle conoscenze e il cambiamento degli atteggiamenti, ma migliorano anche le competenze relazionali e comunicative, con una conseguente diminuzione dell’incidenza della violenza nelle relazioni intime sia nelle scuole secondarie di primo che di secondo grado.
Un’indagine condotta su un campione di 37.000 adolescenti ha mostrato una riduzione statisticamente significativa della violenza sessuale sia perpetrata che subita, a seguito dell’introduzione di interventi educativi scolastici specifici.
Particolarmente rilevanti risultano gli interventi basati sull’apprendimento socio-emotivo (social-emotional learning), i quali, introdotti già nella scuola primaria, promuovono la gestione delle emozioni, delle relazioni e dei conflitti. Una meta-analisi su oltre 200 studi ha rilevato miglioramenti significativi in termini di empatia, autocontrollo e comportamenti prosociali, accompagnati da una riduzione dei comportamenti problematici.
L’insegnamento sistematico e completo dell’affettività e della sessualità rappresenta, quindi, un fattore protettivo per lo sviluppo di capacità critiche, consapevolezza del consenso, rispetto dei ruoli di genere, autoefficacia e capacità di intervento in situazioni a rischio. Infine, l’evidenza del cosiddetto “paradosso nordico”, ossia l’osservazione che l’uguaglianza di genere formale non si traduce automaticamente in una minore incidenza della violenza sessuale, sottolinea l’urgenza di una CSE che promuova fin dall’infanzia competenze emotive, pensiero critico, consapevolezza del consenso e rispetto dei confini interpersonali.
Le evidenze disponibili indicano con chiarezza che tali programmi costituiscono un elemento imprescindibile delle politiche educative e di salute pubblica orientate alla prevenzione della violenza (Bovini & Demozzi, 2024).
Di Eleonora D’Alessio e Martina Festa
1) Bettio, F., Ticci, E., Betti, G. (2020). L’eguazianza di genere riduce la violenza sulle donne? Rassegna italiana di sociologia, 61 (1), 29-57.
2) Bovini, E.; Demozzi, S. (2024). Prevenire la violenza di genere: il ruolo dell’educazione sessuale come strumento di contrasto. Annali online della Didattica e della Formazione Docente, Vol.16
3) Martucci, F. (2018). Il paradosso nordico sulle donne e le differenze di genere. Il Post
4) M. Schneider, J. Hirsch, Comprehensive sexuality education as a primary prevention strategy for sexual violence perpetration, in “Trauma, Violence, & Abuse”, 21, 3, 2020, pp. 439-455.
5) UNESCO (Sexual and Reproductive Health and Research), International technical guidance on sexuality education. An evidence-informed approach, UNESCO, UNAIDS, UNFPA, UNICEF, UN Women & WHO, Paris, 2018.
6) World Association for Sexual Health (WAS), Dichiarazione dei diritti sessuali, Valencia, 1997.