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corpo femminile

La riappropriazione della propria identità e del proprio corpo

Tradizionalmente, la donna è posta in una posizione di alterità rispetto all’uomo. La donna è figlia, moglie e madre di, mentre l’uomo è il pater familias, il capofamiglia, da cui, almeno fino a poco tempo fa, la prole “eredita” il cognome con cui verrà identificata, da parte della comunità in piccolo e della società in grande, l’intera famiglia. L’identità della donna è dunque fortemente dipendente da quella dell’uomo a cui essa è legata, sia esso un padre, un marito o un figlio, e i rapporti di potere che derivano da questa posizione subordinata non possono che essere asimmetrici. Di conseguenza, la sua immagine è sottoposta allo “sguardo” maschile, e il suo corpo e la sua sessualità non le appartengono in quanto questi non sono altro che la proiezione del desiderio e dei bisogni dell’uomo. Tuttavia, la rappresentazione femminile che scaturisce da tali dinamiche non è altro che una costruzione sociale, da cui il carattere ambiguo dell’identità della donna e la possibilità di una ridefinizione del suo ruolo, che dovrà passare attraverso un percorso di riappropriazione della sua sessualità e del suo corpo.

Sradicare l’idea della donna oggetto della visione maschile e, soprattutto, annullare il processo di interiorizzazione da parte delle donne stesse dei modelli elaborati dagli uomini che le “ingabbiano” in un determinato ruolo sono dinamiche già in atto che hanno portato e continuano a portare a rivendicazioni e lotte per il riconoscimento di determinati diritti, che spesso hanno ad oggetto le scelte riproduttive delle donne.
A questo (in realtà non così nuovo) panorama, caratterizzato da maggiore consapevolezza, prese di posizione e contestazioni, si affaccia il delicato quanto controverso tema dell’aborto, più attuale che mai a seguito delle decisioni politiche assunte non solo da alcuni Paesi via di sviluppo, ma anche da certi Paesi della civile Europa e dai potenti Stati Uniti d’America.

La criminalizzazione dell’aborto e le sue conseguenze: alcuni dati

La sentenza del 24 giugno 2022 emanata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha ribaltato la Roe v. Wade con la quale, nel 1973, la medesima Corte sancì la legittimità delle pratiche di interruzione della gravidanza, costituisce solo l’ultimo esempio di un trend già in atto in diversi Paesi, ovvero una crescente ingerenza dello Stato nell’ambito della vita sessuale e riproduttiva delle donne che intende penalizzare l’esercizio da parte di queste ultime delle loro libertà in materia. Anzi, si può affermare che questa ingerenza sia volta a disconoscere e cancellare tali libertà, operando una sorta di controllo patriarcale nell’ambito di una dimensione, estremamente delicata e privata, della quale la donna ha storicamente tentato, con metodi spesso tragicamente fallaci, di riappropriarsi.

Se la condanna dell’aborto, infatti, è un fenomeno che ha radici estremamente profonde e antiche, le quali trovano nutrimento nel patriarcato, altrettanto antichi sono i metodi e le pratiche con cui le donne hanno cercato, nei secoli, di esercitare un controllo sulla propria capacità riproduttiva, anche interrompendo gravidanze che esse non desideravano. Tuttavia, i sistemi utilizzati a tale scopo erano e continuano a essere estremamente pericolosi e pregiudizievoli per la salute di donne e ragazze le quali, affidandosi a pratiche domestiche spesso eseguite da persone non competenti e con mezzi e strumenti di fortuna, si espongono a rischi che non sussisterebbero se esse avessero accesso a sistemi legali e sicuri. La criminalizzazione dell’aborto non è mai servita a ridurre effettivamente il numero assoluto delle interruzioni di gravidanza, ma ha solamente comportato un aumento del tasso di mortalità e di ospedalizzazione delle donne che, in mancanza di adeguate tutele, sono ricorse a tali “rimedi” alternativi.

Secondo i dati del Guttmacher Institute, tra le più rilevanti autorità in materia, ogni anno tra il 2015 e il 2019 si sono verificate in tutto il mondo circa 121 milioni di gravidanze indesiderate, di cui oltre la metà- ben il 61%- si è conclusa con un’interruzione, per un totale di 73 milioni di aborti l’anno (1). È bene precisare che il numero potrebbe essere maggiore, considerando che una parte di tali interruzioni saranno state operate clandestinamente, per cui i dati potrebbero essere inficiati da una carenza di fonti attendibili.
Si stima che il 45% degli aborti siano pericolosi e pregiudizievoli per la salute delle donne, poiché praticati in condizioni igienico-sanitarie precarie e clandestinamente, e ben il 97% di questi avviene in Paesi in via di sviluppo (2). Più della metà hanno luogo in Asia, la maggior parte dei quali in Asia centrale e meridionale, mentre in America latina e in Africa circa tre quarti degli aborti avvengono in condizioni igienico-sanitarie di scarsa sicurezza (3).

Nonostante i rischi, è bene notare come legislazioni restrittive in tema di interruzione della gravidanza non sembrano impattare sul numero di aborti tanto tanto che, nei Paesi in cui queste sono vigenti, si è passati da un 36% di gravidanze indesiderate terminate in un aborto tra il 1990 e il 1994 a un 50% tra il 2015 e il 2019 (4). In effetti, comparando i dati a disposizione per quanto riguarda, da una parte, i Paesi dove l’aborto è legale e, dall’altra, quelli in cui non lo è, emerge che la differenza percentuale di gravidanze che si concludono con un’interruzione volontaria è pari a un mero 2% (41% nel primo caso, 39% nel secondo) (5).

Una differenza significativa attiene invece al numero di gravidanze non pianificate le quali, nei Paesi dove l’aborto è illegale, sono particolarmente frequenti, fino a toccare quasi l’80% del totale (6), un dato che testimonia lo stretto legame esistente tra criminalizzazione dell’aborto e restrizioni legislative in materia da una parte, e scarsa diffusione dei contraccettivi e dell’educazione sessuale dall’altra.

Come già accennato, la criminalizzazione dell’aborto comporta spesso serie conseguenze per la salute delle donne che, non avendo accesso a metodi legali e sicuri, ricorrono a pratiche clandestine che le espongono a gravi pericoli, tra cui il rischio di morte. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, l’aborto clandestino ha una certa incidenza per quanto riguarda la mortalità materna, con una percentuale che oscilla tra il 4,7 e il 13,2% di morti causate appunto da tale sistema alternativo di interruzione (7). Al contrario, l’accesso legale a pratiche sicure è associato a minori tassi di mortalità materna e a un minor numero di complicazioni post-aborto, contribuendo dunque a preservare la salute e l’integrità fisica di donne e ragazze.

Ma l’aborto clandestino ha effetti anche sulla sicurezza di coloro le quali ricorrono a questa “soluzione”, poiché le espone al rischio di ritrovarsi in situazioni pericolose come truffe, ricatti economici o di natura sessuale, crimini gravissimi che tuttavia restano impuniti a causa della ritrosia delle vittime a denunciarli alle autorità per il timore di subire eventuali ripercussioni in merito al tentativo (più o meno riuscito) di abortire.

 

di Roberta Carbone

 

(1) Guttmacher Institute, Global and regional Estimates of Unintended Pregnancy and Abortion, https://www.guttmacher.org/fact-sheet/induced-abortion-worldwid

(2) Organizzazione Mondiale della sanità, Abortion, https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/abortion

(3) Ibidem

(4) Guttmacher Institute, Global and regional Estimates of Unintended Pregnancy and Abortion, https://www.guttmacher.org/fact-sheet/induced-abortion-worldwide

(5) Ibidem

(6) Ibidem

(7) Organizzazione Mondiale della Sanità, Abortion, https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/abortion

 

Foto di Engin_Akyurt da Pixabay