Educare alle differenze

A qualcuno le definizioni piacciono proprio perché necessarie per far confusione.

“Pari o dispari? Il gioco del rispetto” (http://giocodelrispetto.org/info/) è un progetto nato in Friuli Venezia Giulia per le scuole dell’infanzia con attività esemplificative contro la discriminazione e la violenza di genere, che prevede un kit didattico, gestito dagli insegnanti e finalizzato ad educare al rispetto e a sviluppare nei bambini un atteggiamento più consapevole. Il gioco include schede che invitano alla riflessione sui comportamenti stereotipati, che consideriamo solitamente tipici di un genere o dell’altro. A Trieste alcuni genitori hanno ritirato i loro figli dall’asilo, dopo aver accusato i promotori di questo gioco di voler usurpare il ruolo educativo alle famiglie. Di contro, sono arrivate da tutta Italia, decine di richieste ufficiali entusiaste con la richiesta di poter adottare il “format del gioco” nelle scuole.


Educare al ribaltamento dei ruoli femminili e maschili non è lo scopo di progetti come questo e, ad ogni modo, non sarebbe affatto utile per migliorare i rapporti tra i sessi. Gli stereotipi non devono semplicemente rovesciarsi, perché altrimenti si cadrebbe nello stesso errore e perseverare è diabolico, ma inserirsi in una “giusta misura tra una cultura che marca fin troppo le differenze di sesso e una che le neutralizza”, come sostiene Irene Biemmi pedagogista dell’Università di Firenze. Se ai genitori sarà chiaro che la formazione dell’identità di genere è frutto della sperimentazione, lo sarà anche ai figli. “Mettersi nei panni di” è pur sempre segno di civiltà, ma questo racconto è stato accusato di voler inculcare nei più piccoli, e in maniera subdola, l’idea che non esistono i generi e che il sesso si sceglie. Tanta la confusione e qualcuno, della confusione, se ne approfitta. Perché? Perché sono i dubbi e le domande a smuovere le coscienze e le persone, mentre le certezze non fanno altro che mantenere le nostre menti in uno stato di accettazione e comfort.

Facciamo chiarezza...

Gender (genere, dall’inglese) si riferisce, per definizione del dizionario Treccani, al “carattere maschile o femminile di un individuo” ed è talmente radicato nella nostra società da essere considerato impresso nel nostro codice genetico, come conseguenza del sesso. Non è facile credere che il genere sia il frutto di una costruzione sociale tradizionale, ma lo è. L’educazione degli adulti genera, per l’appunto, modi diversi di sentire, di essere consapevoli e di entrare in relazione, insieme a differenti abilità, che chiamiamo femminili o maschili. Al di là delle innegabili differenze fisiche e biologiche, i bambini imparano ad essere maschi o femmine, ma cosa voglia dire cambia culturalmente e col tempo. Come abbiamo avuto modo di commentare nel recente articolo sull’educazione alla sessualità nelle scuole (https://www.arpea.it/16-articoli/37-la-legge-di-riforma-della-buona-scuola-e-l-educazione-alla-sessualita-nelle-scuole), la sessualità è un sistema complesso e sempre più difficilmente è riconducibile, nella nostra società, a due modalità opposte e stabili. Questa considerazione va al di là del credo e delle convinzioni personali, riflette la realtà di chi vive in una società moderna e risulta ancor più evidente per chi vive in città (come Roma, per esempio). E’ naturale usare le definizioni per orientarsi nel mondo (etichette e tradizioni servono anche a farci sentire al sicuro), ma le categorie del reale non hanno confini netti e, soprattutto, non sono immutabili. Le differenze ci sono e vanno rispettate, ma se l’intento è fare chiarezza e informare (i genitori nel caso delle scuole italiane) allora chiarezza deve esser fatta. Mescolare il tema del genere con quello dell’orientamento sessuale e delle nuove frontiere della procreazione assistita per famiglie omoaffettive moderne, significa esser fuorvianti.

Proprio l’epoca in cui la sessualità esplode visibilmente nel quotidiano sociale sembra quella meno “risolta” relativamente a queste tematiche. L’idea di includere nelle scuole un programma che tratti il tema del genere e delle pari opportunità serve anche a questo, cioè a presentare tutte le possibilità del reale, senza giudizio, così da dare ai bambini, sempre più affamati di precorrere i tempi, tutti gli strumenti per diventare giovani consapevoli. L’obiettivo deve essere educare al rispetto delle differenze. O forse no? Per rispondere a questa domanda basta entrare in una qualsiasi scuola primaria italiana e rendersi conto del melting pot (amalgama di origini ed etnie, dall’inglese) attuale. Su questa linea, l’educazione proposta nelle scuole, all’affettività e alla tolleranza nei confronti delle differenze, non ha come scopo spingere i maschietti a diventare femmine o viceversa né a diffondere ideologie gender (come ha sottolineato in un comunicato ufficiale l’Ordine Nazionale degli Psicologi e l’Associazione Italiana deli Psicologi (http://www.psy.it/comunicati-stampa/allegati/2015-09-08-comunicato-stampa.pdf), né rischia di favorire un’attività sessuale precoce. Bensì, vuole favorire il rispetto indipendentemente dalla propria identità e dalle proprie preferenze.

Nello specifico, il Disegno di Legge n. 1680 presentato dalla senatrice Valeria Fedeli (http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/45005.htm) sull’ “Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università” prevede l’integrazione dell’offerta formativa con l’insegnamento interdisciplinare dell’educazione di genere per un cultura dell’uguaglianza e il rispetto delle diversità”. L’obbligo di formazione esisterebbe ma riguarda solo il personale docente e scolastico. Il DDL parte dal presupposto che i fatti di cronaca sui rapporti conflittuali e violenti, anche tra i più giovani, impongono “di riconsiderare i percorsi formativi offerti dalla scuola, nell'ottica di promuovere il superamento degli stereotipi di genere, educando le nuove generazioni, lungo tutte le fasi del loro apprendimento scolastico, al rispetto della differenza di genere”.

Il riconoscimento della parità, in termini di diritti e possibilità, è la strada indicata per il superamento degli stereotipi negativi perché è chiaro che esiste un legame tra discriminazione e violenza. Nella pratica, questo non significa annullare l'evidente differenza tra maschi e femmine, ma mostrare tutte le varianti possibili di sviluppo della capacità personali. A tutti gli Stati membri dell’Unione Europea è stato chiesto di rivalutare i programmi di studio nell'ottica di una riforma che conduca all'integrazione delle questioni di genere (intese come differenze e uguaglianze maschili e femminili) in modo trasversale, così da dare maggiore visibilità al contributo e al ruolo delle donne nella storia, nella letteratura o nell'arte, anche nei primi livelli d'istruzione. Lo studio diventa così lo studio della storia dell'umanità nella sua interezza. D'altronde in Italia i diritti civili e politici per le donne sono una conquista relativamente recente, infatti, ancora oggi sono necessarie leggi per dare a tutti la possibilità di avere le stesse opportunità, trattamento e/o retribuzioni. Questo per dimostrare quanto sia “radicata la disuguaglianza di genere e la organizzazione gerarchica dei ruoli e come, proprio per questo motivo, alla parità formale dei diritti non sempre corrisponda la parità sostanziale”. L'idea è sollecitare la riflessione sulle conseguenze degli stereotipi e incoraggiare a intraprendere percorsi di studi e professionali che superino i tradizionali limiti “femminili” o “maschili” (donne impegnate perlopiù nel settore umanistico e uomini in quello tecnico). Il vantaggio sarebbe senz'altro di tutti, considerando la particolare situazione economica del Paese, perché preparerebbe i cittadini del futuro a una maggiore apertura e flessibilità tanto personale quanto professionale (“impiegabilità” nei diversi settori di necessità). In un’ottica ideale, la scuola dovrebbe essere la prima ad accogliere e sostenere certe istanze proprio in quanto agente dell’educazione e promotrice del “seme della consapevolezza”.

Giulia Ulivi